Cinema Massimo
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A Dangerous Method
Un film di David Cronenberg. Con Michael Fassbender, Keira Knightley, Viggo Mortensen, Vincent Cassel, Sarah Gadon.
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di Giancarlo Zappoli (mymovies)
Zurigo 1904. Carl Gustav Jung ha ventinove anni, è sposato, in attesa di una figlia e affascinato dalle teorie di Sigmund Freud. Nell'ospedale Burgholzli in cui esercita la professione di psichiatra viene portata una giovane paziente, Sabina Spielrein. Jung decide di applicare le teorie freudiane sul caso di questa diciottenne che si scoprirà aver vissuto un'infanzia in cui le violenze subite dal padre hanno condizionato la visione della sessualità. Nel frattempo Freud, che vede in Jung il suo potenziale successore, gli manda come paziente lo psichiatra Otto Gross, tossicodipendente e dichiaratamente amorale. Saranno i suoi provocatori argomenti contro la monogamia a far cadere le ultime barriere e a convincere Jung ad iniziare una relazione intima con Sabina.
Non è difficile capire quanto questa sceneggiatura (che risale alla metà degli anni Novanta) e soprattutto questa storia con protagonisti che hanno rivoluzionato le scienze umane abbiano suscitato l'interesse di David Croneberg attento, come sempre, a vicende in cui siano centrali la complessità dell'essere umano e il coacervo di sentimenti e pulsioni che ne promuovono l'agire. Non c'è carne esposta o martoriata in questo film e neppure la violenza che esplodeva improvvisa nelle sue due ultime opere. C'è semmai un ritorno all'indagine della psiche già affrontato in Spider sotto l'egida di un romanzo di McGrath.
Sul rapporto tra Sabina Spielrein e Jung si era già puntata la macchina da presa di Roberto Faenza quando girò Prendimi l'anima. Cronenberg assume la stessa prospettiva mostrandoci l'evolvere della relazione Jung/Spielerein ma entrando in profondità anche nel rapporto maestro/discepolo che si va costruendo tra Freud e Jung. Una giovane donna urlante riempie lo schermo e una carrozza nelle prime inquadrature del film. Quel grido progressivamente si placherà ma resterà sempre sottotraccia, pronto a riemergere. Perché a Cronenberg interessa analizzare ancora una volta la fragilità dell'agire anche quando, a livelli culturali elevati, si tenta di lavorare sullo smascheramento delle cause del disagio finendo poi con il precipitarvi. C'è un'inquadratura di Carl Gustav e Sabine sdraiati vicini sul fondo di un'imbarcazione. Sembrano prigionieri di una bara in cui cercano di allentare una passione che contrasta con il lavoro che compiono sui pazienti e con la stessa deontologia professionale. In questo film poi i segni dell'elaborazione delle pulsioni cercano di trovare un incanalamento nella parola. Non solo in quella detta in sede di analisi ma anche in quella, scritta, del carteggio intercorso tra i tre protagonisti. Se Freud ammise il contributo dato dalla Spielrein alla psicoanalisi, Jung non lo fece, ma anche nel suo caso l'apporto è innegabile. Gli splendidi titoli di testa e di coda ci ricordano come i segni dell'inchiostro, su una carta che assume la porosità della pelle, abbiano inciso profondamente sulla storia del Novecento passando attraverso le illuminazioni e le contraddizioni di tre personalità in costante ricerca.
Non è difficile capire quanto questa sceneggiatura (che risale alla metà degli anni Novanta) e soprattutto questa storia con protagonisti che hanno rivoluzionato le scienze umane abbiano suscitato l'interesse di David Croneberg attento, come sempre, a vicende in cui siano centrali la complessità dell'essere umano e il coacervo di sentimenti e pulsioni che ne promuovono l'agire. Non c'è carne esposta o martoriata in questo film e neppure la violenza che esplodeva improvvisa nelle sue due ultime opere. C'è semmai un ritorno all'indagine della psiche già affrontato in Spider sotto l'egida di un romanzo di McGrath.
Sul rapporto tra Sabina Spielrein e Jung si era già puntata la macchina da presa di Roberto Faenza quando girò Prendimi l'anima. Cronenberg assume la stessa prospettiva mostrandoci l'evolvere della relazione Jung/Spielerein ma entrando in profondità anche nel rapporto maestro/discepolo che si va costruendo tra Freud e Jung. Una giovane donna urlante riempie lo schermo e una carrozza nelle prime inquadrature del film. Quel grido progressivamente si placherà ma resterà sempre sottotraccia, pronto a riemergere. Perché a Cronenberg interessa analizzare ancora una volta la fragilità dell'agire anche quando, a livelli culturali elevati, si tenta di lavorare sullo smascheramento delle cause del disagio finendo poi con il precipitarvi. C'è un'inquadratura di Carl Gustav e Sabine sdraiati vicini sul fondo di un'imbarcazione. Sembrano prigionieri di una bara in cui cercano di allentare una passione che contrasta con il lavoro che compiono sui pazienti e con la stessa deontologia professionale. In questo film poi i segni dell'elaborazione delle pulsioni cercano di trovare un incanalamento nella parola. Non solo in quella detta in sede di analisi ma anche in quella, scritta, del carteggio intercorso tra i tre protagonisti. Se Freud ammise il contributo dato dalla Spielrein alla psicoanalisi, Jung non lo fece, ma anche nel suo caso l'apporto è innegabile. Gli splendidi titoli di testa e di coda ci ricordano come i segni dell'inchiostro, su una carta che assume la porosità della pelle, abbiano inciso profondamente sulla storia del Novecento passando attraverso le illuminazioni e le contraddizioni di tre personalità in costante ricerca.
APPUNTAMENTO PROPOSTO DA
UN METODO PERICOLOSO
recensione di Davide Biagioni
sul film A DANGEROUS METHOD di D. Cronenberg
commento per immagini
di Dario Coppola
“Un metodo pericoloso”. Mai titolo fu più appropriato di questo.
Nell’immaginario collettivo siamo soliti, soprattutto noi studenti di psicologia, sentire persone non solo scettiche nei confronti di questa disciplina, ma chiaramente contrarie e solitamente impaurite e infastidite dall’idea che qualche analista “entri nelle loro teste”.
Non è un caso che il termine scelto in partenza non fosse infatti terapia, come spesso si usa oggi per rendere la pillola più dolce, ma analisi, una vera e propria analisi dell’altro.
Questo termine ha sempre ottenuto resistenze, e pochi si interessano e voglio sapere ciò che di mistico e pericoloso avvenga in quelle sedute.
Se ad oggi questa paura è decisamente immotivata e priva di fondamento, dal momento che tutto è evoluto, deontologico e regolamentato, possiamo essere certi che le cose fossero in termini leggermente diversi per questi “pionieri” della psicanalisi.
Con l’analisi la psicologia smette di essere sperimentale, come lo era stata fin dalle origini con l’apertura del primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia da parte di Wilhelm Wundt.
Il modello ora diventa relazionale, dando origine a quei filoni definiti “Psicologia del profondo”.
Modello relazionale vuol dire che non c’è una tecnica che si applica in modo standardizzato per ogni paziente; o per meglio dire le tecniche di analisi sono applicate all’interno di una vera e propria riflessione comune che avviene tra paziente e analista. Se oggi questa differenza di ruoli è ormai sedimentata e digerita, i primi poveri analisti, di solito tutti medici abituati ad intervenire in modo farmacologico o chirurgico, non erano abituati ad un tipo di Cura (prendersi cura) che coinvolgesse loro in prima persona come uomini.
L’analisi del transfert infatti era già stata ipotizzata da Freud stesso, mentre solo dopo la sua morte è stata ipotizzata quella del contro-transfert.
Insomma questi uomini tendevano a chiudere delle donne altolocate e con sintomi isterici in una stanza, da soli, per un paio d’ore, ogni giorno, e farle parlare a ruota libera, meglio se lo facevano in riferimento a eventi sessuali repressi. Alcuni, come Sándor Ferenczi,(allontanato poi dalla scuola analitica), erano anche forti sostenitori del contatto fisico in queste sedute.
Non è difficile immaginare come tutta la vasta gamma dei professoroni in medicina del tempo osteggiassero questi metodi, dal momento che in quegli anni erano già iniziati studi importanti e rilevanti di neuroanatomia e neuropsicologia, deterministici, sicuri e morali.
In questo quadro di riferimento si muovevano uomini, uomini e ancora uomini, ma si sa, dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, e lo stesso vale per uno dei grandi Maestri del sospetto.
Freud, sessuomane e probabilmente omosessuale, aveva ipotizzato che l’unica forza pulsionale che spingesse l’uomo fosse quella del piacere, e possibilmente il piacere di tipo sessuale. Era inamovibile su questo punto, dal momento che in ogni suo caso clinico il nucleo nevrotico si scioglieva quando si giungeva all’evento sessuale subito, fosse esso reale o immaginario.
E ancora una volta si sa che le donne sono un passo avanti nell’ambito della sensibilità, tanto che ad oggi la psicologia è definita una disciplina “femmina”.
E’ stato così che grazie all’intervento di Sabina Spielrein, (nel film A DANGEROUS METHOD interpretata da un’anoressica Keira Knightley), nevrotica ebrea svizzera, sensibilizza Freud su uno dei temi più importanti e delicati che faranno fare un vero e proprio salto di qualità alla sua dottrina.
Il film di Cronenberg è storicamente abbastanza corretto, ben interpretato, ampi i richiami a frasi famose e scene reali indimenticabili, paesaggi e costumi ricercati e precisi, e tanto tanto sentimento.
Il modo in cui vengono messi in scena i più grandi collanti della società umana, amore e amicizia e matrimonio, denotano ancora una volta la mano di un regista esperto nel settore tecnico e maturo nella vita.
sul film A DANGEROUS METHOD di D. Cronenberg
commento per immagini
di Dario Coppola
“Un metodo pericoloso”. Mai titolo fu più appropriato di questo.
Nell’immaginario collettivo siamo soliti, soprattutto noi studenti di psicologia, sentire persone non solo scettiche nei confronti di questa disciplina, ma chiaramente contrarie e solitamente impaurite e infastidite dall’idea che qualche analista “entri nelle loro teste”.
Non è un caso che il termine scelto in partenza non fosse infatti terapia, come spesso si usa oggi per rendere la pillola più dolce, ma analisi, una vera e propria analisi dell’altro.
Questo termine ha sempre ottenuto resistenze, e pochi si interessano e voglio sapere ciò che di mistico e pericoloso avvenga in quelle sedute.
Se ad oggi questa paura è decisamente immotivata e priva di fondamento, dal momento che tutto è evoluto, deontologico e regolamentato, possiamo essere certi che le cose fossero in termini leggermente diversi per questi “pionieri” della psicanalisi.
Con l’analisi la psicologia smette di essere sperimentale, come lo era stata fin dalle origini con l’apertura del primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia da parte di Wilhelm Wundt.
Il modello ora diventa relazionale, dando origine a quei filoni definiti “Psicologia del profondo”.
Modello relazionale vuol dire che non c’è una tecnica che si applica in modo standardizzato per ogni paziente; o per meglio dire le tecniche di analisi sono applicate all’interno di una vera e propria riflessione comune che avviene tra paziente e analista. Se oggi questa differenza di ruoli è ormai sedimentata e digerita, i primi poveri analisti, di solito tutti medici abituati ad intervenire in modo farmacologico o chirurgico, non erano abituati ad un tipo di Cura (prendersi cura) che coinvolgesse loro in prima persona come uomini.
L’analisi del transfert infatti era già stata ipotizzata da Freud stesso, mentre solo dopo la sua morte è stata ipotizzata quella del contro-transfert.
Insomma questi uomini tendevano a chiudere delle donne altolocate e con sintomi isterici in una stanza, da soli, per un paio d’ore, ogni giorno, e farle parlare a ruota libera, meglio se lo facevano in riferimento a eventi sessuali repressi. Alcuni, come Sándor Ferenczi,(allontanato poi dalla scuola analitica), erano anche forti sostenitori del contatto fisico in queste sedute.
Non è difficile immaginare come tutta la vasta gamma dei professoroni in medicina del tempo osteggiassero questi metodi, dal momento che in quegli anni erano già iniziati studi importanti e rilevanti di neuroanatomia e neuropsicologia, deterministici, sicuri e morali.
In questo quadro di riferimento si muovevano uomini, uomini e ancora uomini, ma si sa, dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, e lo stesso vale per uno dei grandi Maestri del sospetto.
Freud, sessuomane e probabilmente omosessuale, aveva ipotizzato che l’unica forza pulsionale che spingesse l’uomo fosse quella del piacere, e possibilmente il piacere di tipo sessuale. Era inamovibile su questo punto, dal momento che in ogni suo caso clinico il nucleo nevrotico si scioglieva quando si giungeva all’evento sessuale subito, fosse esso reale o immaginario.
E ancora una volta si sa che le donne sono un passo avanti nell’ambito della sensibilità, tanto che ad oggi la psicologia è definita una disciplina “femmina”.
E’ stato così che grazie all’intervento di Sabina Spielrein, (nel film A DANGEROUS METHOD interpretata da un’anoressica Keira Knightley), nevrotica ebrea svizzera, sensibilizza Freud su uno dei temi più importanti e delicati che faranno fare un vero e proprio salto di qualità alla sua dottrina.
Il tema di cui parlo
è il principio o pulsione di morte. Nel 1920 pubblicherà infatti il
saggio “Al di là del Principio di Piacere” e da quel momento in avanti,
amore e aggressività saranno inequivocabilmente legati uno con l’altro e
la teoria analitica viene riconosciuta e accettata dai più.
Lasciando da parte la provocazione finale del regista che vede Jung come il più grande psicologo mai esistito, è indubbio che l’abilità e la potenza rappresentativa di questo film siano inequivocabilmente di alto livello.
Lasciando da parte la provocazione finale del regista che vede Jung come il più grande psicologo mai esistito, è indubbio che l’abilità e la potenza rappresentativa di questo film siano inequivocabilmente di alto livello.
Il film di Cronenberg è storicamente abbastanza corretto, ben interpretato, ampi i richiami a frasi famose e scene reali indimenticabili, paesaggi e costumi ricercati e precisi, e tanto tanto sentimento.
Il modo in cui vengono messi in scena i più grandi collanti della società umana, amore e amicizia e matrimonio, denotano ancora una volta la mano di un regista esperto nel settore tecnico e maturo nella vita.
Davide Biagioni,
socio-fondatore Associazione Quintiliano
(studente UniTO- Psicologia)
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