SALA ARANCIO
incontri al CINEMA
dell'Associazione Culturale Quintiliano

mercoledì 7 dicembre 2011

Giovedì 08.12.11 ore 19.50


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Cinema Romano

Galleria Subalpina - Torino. Telefono: +39 0115 620 145  mappa» 
Miracolo a Le Havre


Un lustrascarpe aiuta un giovane clandestino a ritrovare la madre

Consigliato: Assolutamente .produzione Finlandia, Francia, Germania, 2011. Durata 93 minuti circa.
Genere Commedia,
l lustrascarpe Marcel Marx vive a Le Havre tra la casa che divide con la moglie Arletty e la cagnolina Laika, il bar del quartiere e la stazione dei treni, dove esercita di preferenza il proprio lavoro. Il caso lo mette contemporaneamente di fronte a due novità di segno opposto: la scoperta che Arletty è malata gravemente e l'incontro con Idrissa, un ragazzino immigrato dall'Africa, approdato in Francia in un container e sfuggito alla polizia. Con l'aiuto dei vicini di casa – la fornaia, il fruttivendolo, la barista - e la pazienza di un detective sospettoso ma non inflessibile, Marcel si prodiga per aiutare Idrissa a passare la Manica e raggiungere la madre in Inghilterra.
Un cast di attori franco-finlandesi, con le facce e le fogge da polar melvilliano, interagiscono in quel di Le Havre in un quartiere dove ancora “buongiorno vuol davvero dire buongiorno”, per usare – assolutamente non a caso - una frase di Miracolo a Milano, di
De Sica e Zavattini. Eppure, la battuta più bella ed emblematica del film è proprio: “restano i miracoli”, dice il dottore, “non nel mio quartiere”, chiosa Arletty. È tutto qui il miracoloso (questo sì) nodo di poesia e disincanto, ottimismo e amarezza di cui è fatto Le Havre , uno dei migliori Kaurismaki in assoluto. Il finale si preoccuperà poi di illuminare il concetto, con uno splendido e improbabile ciliegio in fiore: un altro mondo è possibile o ci vorrebbe davvero un miracolo perché una storia come quella di Idrissa accadesse nella realtà? Entrambe le cose, sembra dire il regista: il cancro che affligge il nostro modo di vivere e di agire è a un livello più che mai avanzato, ma “restano i miracoli”.
D'altronde, il fondatore del Midnight Sun film festival, quando al suo meglio, non ha mai fatto altrimenti che promuovere ossimori – i Leningrad cowboys -, trovare ricchezza nella povertà, (far) reagire con straordinaria nonchalance di fronte all'incongruo (la scena dell'ananas, in questo film, è qualcosa che non si dimentica), mescolare magistralmente anacronismo e attualità. È un sognatore? Eppure il sole di mezzanotte è un fenomeno reale, astronomico, naturale.
 Marianna Cappi (mymovies)
appuntamento proposto da
Comitato LICEO GIUSTI (TO) dell'Associazione Culturale QUINTILIANO

domenica 27 novembre 2011

Mercoledì 30.11.11 ore 17.40

Cinema Romano


Galleria Subalpina - Torino. Telefono: +39 0115 620 145  mappa» 

Faust

Un film di Aleksandr Sokurov. Con Johannes Zeiler, Anton Adasinsky, Isolda Dychauk, Georg Friedrich, Hanna Schygulla.
continua»
Titolo originale Faust. Drammatico, durata 134 min. - Russia 2010. - Archibald Enterprise Film
di Marianna Cappi    (mymovies)
Quarta e ultima parte della tetralogia di Aleksandr Sokurov sulla natura del potere, Faust è l'unico personaggio letterario della partita, dopo Hitler (Moloch), Lenin (Taurus) e Hiroito (Il sole), ma è anche quello contenuto in nuce in tutti gli altri, per il carattere mitico e simbolico che porta in sé.
Il regista russo rilegge liberamente tanto l'opera di Goethe che quella di Mann, scegliendo l'ambientazione ottocentesca e mantenendo la lingua tedesca e l'idea tragica di fondo, per cui la condizione umana consisterebbe in un continuo errare. Sokurov inscena, dunque, questa (diabolica) perseveranza nell'errore costringendo i suoi personaggi a un procedere senza sosta, a una letterale erranza tra boschi, case, lande, ghiacciai. Il protagonista del film non si ferma un istante, tanta è la sua sete di sapere e tanta è la lontananza dalla meta. A questo movimento senza soluzione di continuità si aggiunge una forza opposta ma altrettanto intensa e inestinguibile che (co)stringe gli esseri umani presenti nell'inquadratura, obbligandoli a farsi largo l'uno sugli altri, a scavalcarsi ad ogni occasione. La gestualità è teatrale, esasperata, ma la sensazione di brulicante claustrofobia ci riporta anche alla pittura di Bosch, non a caso un artista che ha utilizzato il realismo per raccontare il male immateriale e i cui dipinti pullulano di creature dannate e sofferenti.
Visivamente grandioso, il Faust di Sokurov è attraversato da un'atmosfera mortifera dalla primissima all'ultima inquadratura. Il suo dottore è una creatura infelice, non affamato di sola conoscenza ma soprattutto di cibo, di sonno, di denaro e di contatto amoroso: bisogni fisiologici e materiali che collocano inequivocabilmente l'inferno su questa terra (non c'è traccia del prologo celeste e il conto degli individui in fila per firmare il patto è in continua espansione e riproduzione). Il paradosso tragico della vita espresso nell'opera è che l'uomo può giungere al divino solo con l'intervento del demonio: per questo quando Wagner chiede al dottor Faust dove si trovi l'anima, il medico –pur avendo indagato le viscere e ogni organo umano- deve ammettere che non l'ha trovata. Il suo potere è umano e dunque limitato.
Con un impiego di mezzi ingente ma anche assolutamente necessario e meritato, Sokurov allestisce uno spettacolo che appaga l'occhio, un'opera d'arte potente e affascinante che ribadisce nel mentre la validità atemporale del racconto. Uno spettacolo di quelli che non siamo più abituati a sostenere senza sforzo ma che ripaga davvero l'impegno che domanda.

Appuntamento proposto da

lunedì 21 novembre 2011

Giovedì 24.11.11 ore 19.50

Cinema Greenwich Village
Via Po 30 Torino 
Telefono: +39 0118 390 123  mappa» 
I soliti idioti

Commedia, - Italia 2011. - Medusa uscita venerdì 4 novembre 2011.
L'incubo del volgare imprenditore romano Ruggero De Ceglie sta per realizzarsi quando il figlio Gianluca è in procinto di sposarsi. Per lui, sessantenne donnaiolo arricchitosi sui panini coi wurstel, avere un figlio colto e sensibile, determinato a sposarsi per amore con una ragazza poco attraente, è un'onta insopportabile, a cui decide di rimediare scommettendo con un altro laido imprenditore romano che Gianluca finirà a letto con la Sorcicova, una famosa top model di biancheria intima. Per vincere, è pronto a far saltare le nozze fingendosi malato terminale di "rontolite seborroica" e scortando il figlio fino a Roma a conoscere la modella. Nel frattempo, alcuni invitati al matrimonio vivono le loro personali disavventure: Fabio è convinto di essere rimasto incinta del suo compagno e interpreta la reazione sbigottita della gente per omofobia; una coppia di benpensanti alto-borghesi nasconde la propria crisi sentimentale con un guardaroba in coordinato e dissimula un malcelato razzismo attraverso gesti xenofobi; mentre un povero fattorino metallaro che deve consegnare il regalo di nozze agli sposi viene tormentato ovunque da un'impiegata delle poste indisponente.
Non sorprende certo che un altro fenomeno comico televisivo cerchi l'espansione dal piccolo al grande schermo. Quel che sorprende di più è che il film derivato dal programma comico di Mtv si avvicini più a un film vero e proprio che a un collage rabberciato degli sketch proposti in televisione. E questo, non perché il nonsense a episodi non conosca modelli cinematografici alti (tipo i Monty Python), ma perché c'è sempre un po' di timore nel vedere l'umorismo dei tempi ridotti e concentrati delle scenette televisive, dilatato all'interno della forma più ampia e in qualche modo più sofisticata del film. Forse suggeriti dal successo dei personaggi di Sacha Baron Cohen come Borat e Ali G, Francesco Mandelli e Fabrizio Biggio si approcciano alla scrittura per il film elaborando la storia attorno a due soli dei loro numerosi caratteri. La scelta ricade su "Father & Son": serie di sketch basati sul confronto padre-figlio fra un sessantenne alcolizzato che racchiude l'espressività linguistica del tipico burino romano con la spocchia di un imprenditore lombardo arricchito, e il figlio dolce e sensibile, appassionato di bruchi e di parole al contrario. L'effetto "strana coppia" diventa il motore narrativo di un road movie che fa Milano-Roma in ambulanza attraverso un percorso fatto di tormentoni, insulti e nefandezze mascherate da lezioni di vita per il figlio prodigio. Il percorso dei due De Ceglie si arricchisce poi di schegge di assurdità (le gag del fattorino), siparietti musical-trash (l'omosessuale ossessionato dall'omofobia) e satira anti-borghese (la coppia benpensante), anche se tali parentesi paiono alla fine più degli inserti obbligati ad assicurare una solida continuità fra programma tv e film per il cinema.
Dopo Checco Zalone, la Taodue di Pietro Valsecchi benedice così anche il passaggio di Nongio e Biggio al grande schermo, dimostrandosi garante fornitore di un'anima cinematografica per progetti para-televisivi, dai quali riesce in qualche modo a trarre un ibrido commercialmente efficace fra il cine-panettone e la commedia demenziale anglosassone.
I soliti idioti non è infatti satira di costume, troppo occupato ad accumulare più tormentoni e goliardici calembour che strati di trucco sul volto di Mandelli. E nemmeno si può considerare davvero comicità irriverente, visto che degli stereotipi su gay e borghesi fa delle macchiette surreali. Però nella sua scombinata e crudele volgarità, l'elogio dell'idiozia di Nongio e Biggio muove sia rumorose risate che bassi istinti. Alla buona coscienza dello spettatore, decidere se questo sia un bene o un male: se sentirsi colpevoli vittime o piacevoli complici di tale inedificante sollazzo.


Appuntamento proposto da

martedì 8 novembre 2011

Mercoledì 09.11.11 0re 19.45

Cinema Ambrosio

Corso Vittorio Emanuele, 52 - Torino. Telefono: +39 011 540 068  mappa» 

Melancholia

Un film di Lars von Trier. Con Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling, Alexander Skarsgård.
continua»
Fantascienza, Ratings: Kids+16, durata 130 min. - Danimarca, Svezia, Francia, Germania 2011.
 
di Giancarlo Zappoli  (mymovies)
Justine arriva con il neomarito alla festa delle nozze che il cognato e la sorella Claire le hanno organizzato con un ritmato protocollo. Justine sorride molto ma dentro di sé prova un disagio profondo che la spingerà ad allontanarsi in più occasioni dai festeggiamenti provocando lo sconcerto di molti, marito compreso. Non si tratta però solo di un malessere esistenziale privato. Una grave minaccia incombe sulla Terra: il pianeta Melancholia si sta avvicinando e, benché il mondo scientifico inviti all'ottimismo, il rischio di collisione e di distruzione totale del globo terrestre è più che mai realistico. Tempo dopo, con Melancholia sempre più vicino, sarà Claire a invitare a casa sua la sorella.
Dopo il harakiri a tutto schermo di Antichrist Lars Von Trier decide di rinunciare ai colpi bassi nei confronti dello spettatore offrendogli, in versione apocalittica, la sua visione delle sorti dell'umanità su questa Terra. Lo fa con un prologo wagneriano (“Tristano e Isotta”) di alta e simbolica qualità estetica a cui fa seguire una bipartizione che vede protagoniste le due sorelle (prima Justine e poi Claire). Due sorelle, due donne che il ‘misogino' per definizione del cinema europeo prende questa volta, in particolare Justine, come rappresentanti di se stesso. Di Justine condivide la sensazione viscontiana di fine di un mondo che merita di dissolversi e, al contempo, il dissacrante e sofferente distacco da tutte le convenzioni. In Claire vede il bisogno (registico) di ‘mettere ordine', di trovare un senso, di controllare anche l'ineluttabile. Le circonda di una folla vinterberghiana (Festen) ritrovando parte degli stilemi del Dogma, nella prima parte, per poi, progressivamente, lasciarle sole con il figlio bambino della seconda e con la Natura. Una Natura che in Von Trier è sempre ‘avanti' rispetto all'essere umano sia che avverta i segni di una catastrofe sia che ne anticipi la dissoluzione. Sulla complessità di un mondo che vorrebbe poter amare non riuscendoci, il regista danese fa intervenire il suo amore per l'Arte che si è data il compito di ‘leggere' per noi la realtà nel profondo. Nel farlo getta un ponte (più o meno conscio non sappiamo) con un Maestro del Cinema come Andrej Tarkovskij. Come non pensare a Lo specchio dinanzi alla doppia proposizione de “Il ritorno dei cacciatori” di Pieter Brueghel il Vecchio? Ma, soprattutto, come non ricordare Sacrificio, l'ultimo film del regista russo che affrontava una tematica analoga partendo da premesse differenti ma con la stessa volontà di messa in gioco di uno sguardo e una ricerca ‘alti'? Uno sguardo e una ricerca che Von Trier vuole condividere con lo spettatore, convinto com'è che “può darsi che non ci sia nessuna verità per cui provare un ardente desiderio ma che il desiderio di per sé stesso è già vero”. 

Appuntamento proposto da

lunedì 17 ottobre 2011

Mercoledì 19.10.11 ore 20.05

Cinema Romano

Galleria Subalpina - Torino. Telefono: +39 0115 620 145  mappa» 
Carnage Un film di Roman Polanski. Con Jodie Foster, Kate Winslet, Christoph Waltz, John C. Reilly Titolo originale Carnage. Drammatico, durata 79 min. - Francia, Germania, Polonia, Spagna 2011. Marzia Gandolfi         


In un misurato appartamento di Brooklyn due coppie provano a risolvere uno smisurato accidente. Zachary e Ethan, i loro figli adolescenti, si sono confrontati incivilmente nel parco. Due incisivi rotti dopo, i rispettivi genitori si incontrano per appianare i conflitti adolescenziali e riconciliarne gli animi. Ricevuti con le migliori intenzioni dai coniugi Longstreet, genitori della parte lesa, i Cowan, legale col vizio del BlackBerry lui, broker finanziario debole di stomaco lei, corrispondono proponimenti e gentilezza. Almeno fino a quando la nausea della signora Cowan non viene rigettata sui preziosi libri d'arte della signora Longstreet, scrittrice di un solo libro, attivista politica di troppe cause e consorte imbarazzata di un grossista di maniglie e sciacquoni. L'imprevisto ‘dare di stomaco' sbriglia le rispettive nature, sospendendo maschere e buone maniere, innescando un'esilarante carneficina dialettica.
Non è la prima volta che Roman Polanski ‘costringe' e isola i suoi protagonisti a bordo di una barca, dentro un castello, oltre il ghetto di Cracovia, sopra un'isola (in)accessibile. Da sempre nella filmografia del regista polacco la separazione è necessaria per mettere ordine e avviare un' ‘inchiesta'. Accomodati tre premi Oscar (Kate Winslet, Jodie Foster, Christoph Waltz) e un candidato eterno non protagonista (John C. Reilly) in un appartamento di Brooklyn, ambientazione dichiarata dalla prima inquadratura e trattenuta da due alberi che dietro le fronde rivelano lo skyline ‘alterato' di Manhattan, Polanski denuncia ancora una volta il riferimento al (suo) maestro inglese. In particolare un capolavoro di Hitchcock palpita sotto la superficie, un omaggio che dopo molte risate lascia un ‘nodo alla gola'. Trattenuto in un'unica location e svolto in tempo reale, Carnage è ‘scenograficamente' prossimo al Rope hitchcockiano che, girato a Los Angeles, apriva le finestre del suo appartamento su una Manhattan in scala, ricreata attraverso un ciclorama di quattrocento metri quadrati e illuminato da un'abbondanza di lampadine e insegne al neon. Il richiamo non si limita allo spazio esterno, ma ancora e di più a quella maniera unica di tradurre un'idea in un movimento, in movimenti invisibili quanto mirabili di macchina. Versione cinematografica della piéce teatrale di Yasmina Reza, co-sceneggiatrice con Polanski, Carnage coniuga il piacere della forma al valore della storia, una storia che ancora una volta suggerisce l'illusione della trasparenza. La maschera linda dei quattro protagonisti insinua presto un malessere sordo, un orrore che c'è e si vede. Così progressivamente le tempeste dialettiche restituiscono alla superficie i ‘corpi' nascosti nei bauli dalla stessa vanità e gratuità degli studenti hitchcockiani.
Polanski, naturalizzato francese ma apolide per vocazione, satura l'inquadratura di uomini e donne che si sentono ostinatamente migliori dell'ambiente che li circonda, che rimandano a se stessi come gli specchi dell'appartamento, ubicato fuori dalla finzione a Parigi e dimostrazione della condizione di “perseguitato” di Polanski. In cattività, congiuntamente ai suoi coniugi (in)stabili e (ir)ragionevoli, il regista ribadisce l'impraticabilità di introdurre un ordine nella realtà perché basta un conato di bile, un cellulare annegato, un libro imbrattato, una borsetta rovesciata a disperdere equilibrio e ‘democrazia'. Città immaginaria e ferocemente reale, New York apre e chiude il dramma da camera di Polanski, che spacca e fruga, ‘percorrendo' con lo sguardo personaggi già ipocriti e corrotti, strumenti di ferocia intrappolati in un cul de sac. In barba al politicamente corretto, l'irriducibile e non riconciliato Polanski ha cominciato a saldare i conti con l'American Dream. Un sogno che non c'è più e forse è solo la più grande menzogna mai tramandata.


appuntamento proposto da

Comitato LICEO GIUSTI (TO) dell'Associazione Culturale QUINTILIANO


mercoledì 12 ottobre 2011

Giovedì 13.10.11 ore 19.55


Cinema Massimo

Via Verdi, 18 - Torino. Telefono: +39 0118 125 606  mappa» 

A Dangerous Method

Drammatico, Ratings: Kids+16, durata 93 min. - Gran Bretagna, Germania, Canada 2011. - Bim
di Giancarlo Zappoli (mymovies)
Zurigo 1904. Carl Gustav Jung ha ventinove anni, è sposato, in attesa di una figlia e affascinato dalle teorie di Sigmund Freud. Nell'ospedale Burgholzli in cui esercita la professione di psichiatra viene portata una giovane paziente, Sabina Spielrein. Jung decide di applicare le teorie freudiane sul caso di questa diciottenne che si scoprirà aver vissuto un'infanzia in cui le violenze subite dal padre hanno condizionato la visione della sessualità. Nel frattempo Freud, che vede in Jung il suo potenziale successore, gli manda come paziente lo psichiatra Otto Gross, tossicodipendente e dichiaratamente amorale. Saranno i suoi provocatori argomenti contro la monogamia a far cadere le ultime barriere e a convincere Jung ad iniziare una relazione intima con Sabina.
Non è difficile capire quanto questa sceneggiatura (che risale alla metà degli anni Novanta) e soprattutto questa storia con protagonisti che hanno rivoluzionato le scienze umane abbiano suscitato l'interesse di David Croneberg attento, come sempre, a vicende in cui siano centrali la complessità dell'essere umano e il coacervo di sentimenti e pulsioni che ne promuovono l'agire. Non c'è carne esposta o martoriata in questo film e neppure la violenza che esplodeva improvvisa nelle sue due ultime opere. C'è semmai un ritorno all'indagine della psiche già affrontato in Spider sotto l'egida di un romanzo di McGrath.
Sul rapporto tra Sabina Spielrein e Jung si era già puntata la macchina da presa di Roberto Faenza quando girò Prendimi l'anima. Cronenberg assume la stessa prospettiva mostrandoci l'evolvere della relazione Jung/Spielerein ma entrando in profondità anche nel rapporto maestro/discepolo che si va costruendo tra Freud e Jung. Una giovane donna urlante riempie lo schermo e una carrozza nelle prime inquadrature del film. Quel grido progressivamente si placherà ma resterà sempre sottotraccia, pronto a riemergere. Perché a Cronenberg interessa analizzare ancora una volta la fragilità dell'agire anche quando, a livelli culturali elevati, si tenta di lavorare sullo smascheramento delle cause del disagio finendo poi con il precipitarvi. C'è un'inquadratura di Carl Gustav e Sabine sdraiati vicini sul fondo di un'imbarcazione. Sembrano prigionieri di una bara in cui cercano di allentare una passione che contrasta con il lavoro che compiono sui pazienti e con la stessa deontologia professionale. In questo film poi i segni dell'elaborazione delle pulsioni cercano di trovare un incanalamento nella parola. Non solo in quella detta in sede di analisi ma anche in quella, scritta, del carteggio intercorso tra i tre protagonisti. Se Freud ammise il contributo dato dalla Spielrein alla psicoanalisi, Jung non lo fece, ma anche nel suo caso l'apporto è innegabile. Gli splendidi titoli di testa e di coda ci ricordano come i segni dell'inchiostro, su una carta che assume la porosità della pelle, abbiano inciso profondamente sulla storia del Novecento passando attraverso le illuminazioni e le contraddizioni di tre personalità in costante ricerca.
APPUNTAMENTO PROPOSTO DA



UN METODO PERICOLOSO

recensione di Davide Biagioni 
sul film A DANGEROUS METHOD di D. Cronenberg

commento per immagini 
di Dario Coppola



“Un metodo pericoloso”. Mai titolo fu più appropriato di questo.
Nell’immaginario collettivo siamo soliti, soprattutto noi studenti di psicologia, sentire persone non solo scettiche nei confronti di questa disciplina, ma chiaramente contrarie e solitamente impaurite e infastidite dall’idea che qualche analista “entri nelle loro teste”.
Non è un caso che il termine scelto in partenza non fosse infatti terapia, come spesso si usa oggi per rendere la pillola più dolce, ma analisi, una vera e propria analisi dell’altro.
Questo termine ha sempre ottenuto resistenze, e pochi si interessano e voglio sapere ciò che di mistico e pericoloso avvenga in quelle sedute.
Se ad oggi questa paura è decisamente immotivata e priva di fondamento, dal momento che tutto è evoluto, deontologico e regolamentato, possiamo essere certi che le cose fossero in termini leggermente diversi per questi “pionieri” della psicanalisi.

Con l’analisi la psicologia smette di essere sperimentale, come lo era stata fin dalle origini con l’apertura del primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia da parte di Wilhelm Wundt.

Il modello ora diventa relazionale, dando origine a quei filoni definiti “Psicologia del profondo”.

Modello relazionale vuol dire che non c’è una tecnica che si applica in modo standardizzato per ogni paziente; o per meglio dire le tecniche di analisi sono applicate all’interno di una vera e propria riflessione comune che avviene tra paziente e analista. Se oggi questa differenza di ruoli è ormai sedimentata e digerita, i primi poveri analisti, di solito tutti medici abituati ad intervenire in modo farmacologico o chirurgico, non erano abituati ad un tipo di Cura (prendersi cura) che coinvolgesse loro in prima persona come uomini.
L’analisi del transfert infatti era già stata ipotizzata da Freud stesso, mentre solo dopo la sua morte è stata ipotizzata quella del contro-transfert.
Insomma questi uomini tendevano a chiudere delle donne altolocate e con sintomi isterici in una stanza, da soli, per un paio d’ore, ogni giorno, e farle parlare a ruota libera, meglio se lo facevano in riferimento a eventi sessuali repressi. Alcuni, come  Sándor Ferenczi,(allontanato poi dalla scuola analitica), erano anche forti sostenitori del contatto fisico in queste sedute.

Non è difficile immaginare come tutta la vasta gamma dei professoroni in medicina del tempo osteggiassero questi metodi, dal momento che in quegli anni erano già iniziati studi importanti e rilevanti di neuroanatomia e neuropsicologia, deterministici, sicuri e morali.
In questo quadro di riferimento si muovevano uomini, uomini e ancora uomini, ma si sa, dietro ogni grande uomo c’è una grande donna, e lo stesso vale per uno dei grandi Maestri del sospetto.

Freud, sessuomane e probabilmente omosessuale, aveva ipotizzato che l’unica forza pulsionale che spingesse l’uomo fosse quella del piacere, e possibilmente il piacere di tipo sessuale. Era inamovibile su questo punto, dal momento che in ogni suo caso clinico il nucleo nevrotico si scioglieva quando si giungeva all’evento sessuale subito, fosse esso reale o immaginario.
E ancora una volta si sa che le donne sono un passo avanti nell’ambito della sensibilità, tanto che ad oggi la psicologia è definita una disciplina “femmina”.

E’ stato così che grazie all’intervento di Sabina Spielrein, (nel film A DANGEROUS METHOD interpretata da un’anoressica Keira Knightley), nevrotica ebrea svizzera, sensibilizza Freud su uno dei temi più importanti e delicati che faranno fare un vero e proprio salto di qualità alla sua dottrina.

 
 Il tema di cui parlo è il principio o pulsione di morte. Nel 1920 pubblicherà infatti il saggio “Al di là del Principio di Piacere” e da quel momento in avanti, amore e aggressività saranno inequivocabilmente legati uno con l’altro e la teoria analitica viene riconosciuta e accettata dai più.
Lasciando da parte la provocazione finale del regista che vede Jung come il più grande psicologo mai esistito, è indubbio che l’abilità e la potenza rappresentativa di questo film siano inequivocabilmente di alto livello.

Il film di Cronenberg è storicamente abbastanza corretto, ben interpretato, ampi i richiami a frasi famose e scene reali indimenticabili, paesaggi e costumi ricercati e precisi, e tanto tanto sentimento.
Il modo in cui vengono messi in scena i più grandi collanti della società umana, amore e amicizia e matrimonio, denotano ancora una volta la mano di un regista esperto nel settore tecnico e maturo nella vita.
Davide Biagioni,
socio-fondatore Associazione Quintiliano
(studente UniTO- Psicologia)

martedì 4 ottobre 2011

Mercoledì 05.11.11

ore 20.05 Cinema MassimoVia Verdi, 18 - Torino. Telefono: +39 0118 125 606  mappa» 

Terraferma
di Marzia Gandolfi (mymovies)        

In un'isola del Mare Nostrum, Filippo, un ventenne orfano di padre, vive con la madre Giulietta e il Nonno Ernesto, un vecchio e irriducibile pescatore che pratica la legge del mare. Durante una battuta di pesca, Filippo ed Ernesto salvano dall'annegamento una donna incinta e il suo bambino di pochi anni. In barba alla burocrazia e alla finanza, decidono di prendersi cura di loro, almeno fino a quando non avranno la forza di provvedere da soli al loro destino. Diviso tra la gestione di viziati vacanzieri e l'indigenza di una donna in fuga dalla guerra, Filippo cerca il suo centro e una terra finalmente ferma.
Terraferma è la terza opera che Emanuele Crialese dedica al mare della Sicilia in un'instancabile ricerca estetica avviata con Respiro nove anni prima. Come Conrad, Crialese per raccontare gli uomini sceglie “un elemento altrettanto inquieto e mutevole”, una visione azzurra ‘ancorata' questa volta al paesaggio umano e disperato dei profughi. Sopra, sotto e intorno a un'isola intenzionalmente non identificata, il regista guarda al mare come luogo di infinite risonanze interiori. Al centro del suo ‘navigare' c'è di nuovo un nucleo familiare in tensione verso un altrove e oltre quel mare che invade l'intera superficie dell'inquadratura, riempiendo d'acqua ogni spazio.
Dentro quella pura distesa assoluta e lungo il suo ritmo regolare si muovono ingombranti traghetti che vomitano turisti ed echi della terraferma, quella a cui anela per sé e per suo figlio la Giulietta di Donatella Finocchiaro. Perché quel mare ingrato gli ha annegato il marito e da troppo tempo è avaro di pesci e miracoli. Da quello stesso mare arriva un giorno una ‘madonna' laica e nera, che il paese di origine ha ‘spinto' alla fuga e quello ospite rifiuta all'accoglienza. La Sara di Timnit T. è il soggetto letteralmente ‘nel mezzo', a cui corrisponde con altrettanta drammaticità la precarietà sociale della famiglia indigena, costretta su un'isola e dentro un garage per fare posto ai vacanzieri a cui è devoto, oltre morale e decenza civile, il Nino ‘griffato' (e taroccato) di Beppe Fiorello. Ma se l'Italia del continente, esemplificata da tre studenti insofferenti, si dispone a prendere l'ultimo ferryboat per un mondo di falsa tolleranza dove non ci sono sponde da lambire e approdare, l'Italia arcaica dei pescatori e del sole bruciante (re)agisce subito con prontezza ai furori freddi della tragedia. Di quei pescatori il Filippo di Filippo Pucillo è il degno nipote, impasto di crudeltà e candore, che trova la via per la ‘terraferma' senza sapere se il mare consumerà la sua ‘nave' e la tempesta l'affonderà. Nel rigore della forma e dell'esecuzione, Crialese traduce in termini cinematografici le ferite dell'immigrazione e delle politiche migratorie, invertendo la rotta ma non il miraggio del transatlantico di Nuovomondo. Dentro i formati allungati e orizzontali, in cui si colloca il suo mare silenzioso, Terraferma trova la capacità poetica di rispondere alle grandi domande sul mondo. Un mondo occupato interamente dal cielo e dal mare, sfidato dal giovane Filippo per conquistare identità e ‘cittadinanza'.
APPUNTAMENTO PROPOSTO DA
Comitato LICEO GIUSTI (TO) dell'Associazione Culturale QUINTILIANO

domenica 5 giugno 2011

Martedì 07.06.11 ore 18.40

The Tree of Life  di Terrence Malick.
CINEMA REPOSI  MULTISALA Via XX Settembre, 15 - Via Arsenale, 31 - Torino. Telefono: +39 011 531 400  mappa»  sito ufficiale» 
Un film con Brad Pitt, Sean Penn, Jessica Chastain, Fiona Shaw, Joanna Going.
Texas, anni Cinquanta. Jack cresce tra un padre autoritario ed esigente e una madre dolce e protettiva. Stretto tra due modi dell'amore forti e diversi, diviso tra essi per tutta la vita, e costretto a condividerli con i due fratelli che vengono dopo di lui. Poi la tragedia, che moltiplica le domande di ciascuno. La vita, la morte, l'origine, la destinazione, la grazia di contro alla natura. L'albero della vita che è tutto questo, che è di tutte le religioni e anche darwiniano, l'albero che si può piantare e che sovrasta, che è simbolo e creatura, schema dell'universo e genealogia di una piccola famiglia degli Stati Uniti d'America, immagine e realtà.
L'attesa della nuova opera di uno degli sguardi più dotati e personali dell'arte cinematografica è ricompensata da un film tanto esteso, per la natura dei temi indagati, quanto essenziale. Popolato persino da frasi quasi fatte, che la genialità del regista riesce a spogliare di ogni banalità e a resuscitare al senso. Malick parla la sua lingua inimitabile, le cui frasi sono composte di immagini (tante, in quantità e qualità) e di parole (molte meno) in una combinazione unica, senza mai pontificare. Si ha più che mai l'impressione che con questo film, che parla a tutti, universalmente, non gli interessi comunicare per forza con nessuno, ma farlo innanzitutto per sé.
Testimone di una capacità rara di sapersi meravigliare, ha realizzato un film che non si può certo dire nuovo ma nel quale Terrence Malick si ripete come si ripropone il bambino nell'uomo adulto, per “essenza” vien da dire: ci si può vedere la maniera o, meglio, ci si può vedere l'autore.
Del film si mormorava addirittura che avrebbe riscritto la storia del cinema e in un certo senso The Tree of Life fa anche questo, senza inventare nulla ma spaziando dall'uso di un montaggio emotivo da avanguardia del cinema degli esordi ad una sequenza curiosamente molto vicina al finale del recentissimo Clint Eastwood, Hereafter. Il confronto, però, scorretto ma tentatore, non si pone: la passeggiata di Malick in un'altra dimensione è potente e infantile come può esserlo solo il desiderio struggente che nutre il bambino di avere tutti nello stesso luogo, in un tempo che contenga magicamente il presente e ogni età della vita. Ecco allora che il film non sarà nuovo ma rinnova, ritrovando un'emozione primigenia, fondendo ricordo e speranza. L'ultimissima immagine non poteva che essere un ponte.
Marianna Cappi (mymovies)
  PROPOSTO DA

domenica 1 maggio 2011

Mercoledì 04.05.11 ore 20

L'altra verità Un film di Ken Loach

Cinema Fratelli Marx


Corso Belgio, 53 - Torino. Telefono: +39 0118 121 410  mappa» 
 
Con Mark Womack, Andrea Lowe, John Bishop, Geoff Bell, Jack Fortune.
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Titolo originale Route Irish. Drammatico, durata 109 min. - Gran Bretagna, Francia, Italia, Belgio, Spagna 2010. - Bim uscita mercoledì 20 aprile 2011. Giancarlo Zappoli (mymovies)    
Liverpool. Fergus e Frankie sono stati amici sin dall'infanzia sognando, sul traghetto che attraversa il fiume Mersey, viaggi impossibili. Divenuti adulti Fergus ha viaggiato come membro della SAS, le forze armate speciali britanniche. Una volta congedato ha convinto l'amico Frankie (ex paracadutista) ad andare in Iraq con lui. Entrambi operano come contractors (i guardiaspalle armati fino ai denti ingaggiati per proteggere privati). Nel settembre 2007 Frankie viene ucciso sulla Route Irish, la strada più pericolosa del mondo che si trova a Baghdad. Fergus, sconvolto dall'accaduto, non crede alla versione ufficiale e prende ad indagare sulla morte dell'amico. Al suo fianco ha Rachel, la vedova.
Ken Loach, aasieme al fedelissimo Paul Laverty, torna ad occuparsi del macrocosmo in cui il potere economico e quello militare si mescolano in maniera inestricabile e perversa. Lo aveva fatto nell'ormai lontano 1996 con La canzone di Carla in cui denunciava la presenza in Nicaragua di ‘consiglieri' americani istruttori di tortura per le forze paramilitari con l'interpretazione di uno straordinario Scott Glenn. Ora come allora Loach ha bisogno però di partire dal microcosmo 'umano' per dare ancora piu' forza alla propria denuncia. Se all'epoca prendeva le mosse da un amore che portava alla scoperta di un mondo di soprusi e sevizie oggi inizia da un'amicizia di quelle destinate ad essere più forti della morte. Una morte della quale (ci ricorda Loach che da tempo si è assunto il compito di fare luce su quanto tendiamo a rimuovere dalla coscienza collettiva) i portatori sono quelli che un tempo si chiamavano con spregio mercenari e che oggi vengono gratificati dalla eufemistica denominazione di 'contractors'. Uomini non al servizio di un ideale (per quanto sempre da verificare) come i militari ma pronti a calpestare qualsiasi regola pur di rispondere alle esigenze dei loro munifici ‘padroni'. Fergus è uno di loro, non è un good guy ma ha conservato dentro di sé (o crede di averlo conservato) il senso del limite. Così come Frankie, incapace di accettare l'indifferenza morale di chi uccide bambini senza il benché minimo rimorso.
L'umanista Ken Loach non può fare finta di nulla dinanzi a un potere economico che sfugge a qualsiasi controllo portando la morte ieri in Iraq e oggi forse già in Darfur o altrove nel mondo con il silenzio complice di chi sa ma preferisce volgere lo sguardo in un'altra direzione. Esattamente il contrario di quello che continua a fare il suo cinema. 
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venerdì 15 aprile 2011

Lunedì 18.04.11 ore 19.45


CINEMA FRATELLI MARX
Corso Belgio, 53 - Torino. Telefono: +39 0118 121 410  mappa» 
Habemus Papam
Un film di Nanni Moretti. Con Michel Piccoli, Jerzy Stuhr, Renato Scarpa, Franco Graziosi, Camillo Milli.
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Commedia, durata 104 min. - Italia, Francia 2011. - 01 Distribution 
 di Giancarlo Zappoli (mymovies)    
I cardinali riuniti in Conclave nella Cappella Sistina procedono all'elezione del nuovo Papa. Smentendo tutti i pronostici viene nominato il cardinale Melville il quale accetta con titubanza l'elezione ma, al momento di presentarsi alla folla dal balcone centrale della basilica di San Pietro, si ritrae. Lo sgomento assale i cristiani in attesa ma, ancor più, i cardinali che debbono cercare di porre rimedio a questo evento mai verificatosi sotto questa forma. Si decide, pur con tutte le perplessità imposte dalla dottrina, di far accedere ai palazzi apostolici lo psicoanalista più bravo per tentare di far emergere le cause che hanno spinto l'alto prelato al diniego e favorirne un ripensamento. Lo psicoanalista fa però un riferimento alla moglie come la terapeuta più brava (dopo di lui). Il portavoce della Santa Sede decide allora di far uscire il Papa dalle Mura vaticane per avere anche un altro intervento che risolva la questione. Che invece si complica perché il Papa, approfittando di un momento di distrazione, scompare per le vie di Roma.
Con Habemus Papam siamo di fronte al film più maturo di un regista che ha saputo conservare intatti il proprio segno inconfondibile e le tematiche che gli stanno da sempre a cuore integrandoli con grande intelligenza e sensibilità a uno sguardo che si allarga a una dimensione che afferma di non condividere ma che qui osserva con la giusta dose di ironia che si fonde con un profondo rispetto.
Non è necessario fare riferimento a La messa è finita per leggere questo film. Erano altri tempi ed altro cinema. Anche per Nanni. Che qui torna con forza sul tema della profonda solitudine dell'essere umano ma sa che non la si può ipostatizzare assolutizzandola. C'è una bellissima scena (che potremmo definire ‘morettiana doc') in cui, mentre sta facendo giocare i cardinali a pallavolo, l'analista afferma che la tremenda verità che Darwin ci ha lasciato è che nulla ha un senso. Proprio in quel momento lui, terapeuta privo dell'augusto paziente, sta cercando di darne uno a quegli uomini che non vengono descritti né alla Dan Brown né ridicolizzati. Si sorride e si ride certo anche delle loro debolezze ma sono e restano delle persone. Il Papa poi (interpretato da un sempre più grande Michel Piccoli) non è un uomo che dubita della propria fede come sarebbe stato facile pensare. Non è Pietro che, invitato da Cristo a camminare sull'acqua per raggiungerlo, affonda perché di fatto non crede al potere del suo Signore. Questo Papa, dallo sguardo intenso e dal sorriso luminoso, non è un pavido ma un umile. Conosce i propri limiti e anche le proprie passioni. Come quella del teatro che ha covato da sempre (qui il rimando, cambiato di segno, a Wojtyla sembra trasparente). È da questa consapevolezza che, progressivamente, gli deriva una grande forza. La forza di chi sa dire di no a Dio non per paura ma perché è convinto di non poterlo servire, attraverso l'umanità, come sarebbe necessario leggendo i segni dei tempi. Il Papa di Moretti si interroga e ci interroga, laici e credenti. Ogni volta che un film ci pone dei quesiti di fondo ci aiuta di fatto a sentirci meno soli e a liberarci, almeno un po', dal più volte citato "deficit di accudimento".

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domenica 10 aprile 2011

Mercoledì 13.04.11 ore 20


Cinema Romano Galleria Subalpina
- Torino. 
Telefono: +39 0115 620 145 
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 La fine è il mio inizio 

 Un film di Jo Baier. Con Bruno Ganz, Elio Germano, Erika Pluhar, Andrea Osvart, Nicolò Fitz-William Lay Titolo originale Das Ende ist mein Anfang. Drammatico, durata 98 min. - Germania, Italia 2011. - Fandango

di Nicoletta Dose  (mymovies)   



Mancano poche settimane alla fine. Tiziano Terzani, da tempo malato di cancro, sta per morire. Mentre raccoglie i suoi ultimi pensieri, tra salutari risate e umane preoccupazioni, decide di richiamare il figlio Folco da New York per trascorrere con lui, nella sua casa di campagna, un momento di confronto confessionale. Quei dialoghi, registrati con devoto impegno dal figlio, diventeranno il libro “La fine è il mio inizio”.
Il film di Jo Baier è un atto di coraggio che sfida le dure leggi dell’intrattenimento perché è un’opera fatta di parole, silenzi e sguardi, pochi movimenti agitati e tante inquadrature delicate. Chiusi, e allo stesso tempo liberi, nella casa di campagna del giornalista, i protagonisti sono in burrasca, attendono con controllata pacatezza un dolore annunciato. Ma il desiderio di ribellarsi ad un programma stabilito di sofferenza viene incanalato in un senso più ampio di pace. La confessione arguta di un uomo che ripercorre, episodio dopo episodio (l’incontro con la moglie Angela, gli aneddoti sui due figli), paese dopo paese (Cina, Vietnam, Singapore), tutte le più grandi esperienze della sua vita, investe il figlio della responsabilità di registrare tutto perché, mentre il corpo se ne va, l’animo continui a vivere nella memoria di chi rimane.
Lo spettatore deve predisporsi all’ascolto, deve calibrare i propri istinti emotivi, lasciarsi andare alla commozione ma allo stesso tempo rimanere vigile di fronte al pensiero finale di un uomo che potrebbe sembrare esoterico (il contatto stretto con la natura, la predisposizione a riflessioni sull’universo, e l’abbigliamento da ‘santone’), ma che invece evita qualsiasi tentazione new age. Anche quando racconta del volo di una coccinella sull’Himalaya o delle cavallette che ricordano primavera, il suo personale panteismo naturalistico non rappresenta mai un punto d’arrivo ma un passaggio che chiama altro sapere. E così, anche alla fine della vita corporea, non smette di curiosare tra le profondità dell’anima, tentando – e infine trovando – un modo umanamente altissimo di andarsene.
Ridere per poter morire in pace, seppur con rabbia. E morire ridendo. Abbandonarsi a ciò che accomuna tutti gli uomini con accettazione, dimostrando che si può volgere lo sguardo al passato, ripensare a ciò che si è fatto e riconoscersi: fare la vita che si desidera è fattibile, dice il padre Tiziano al figlio Folco. Bruno Ganz e Elio Germano dimostrano di aver compreso la profondità del suo pensiero e, con dedizione e rispetto, rappresentano, il primo l’ingombrante ombra di un padre straordinario ma difficile da raggiungere, il secondo l’intelligente volontà di essere diverso dal genitore, pur ammirandone lo spirito da esploratore. Un’eredità aggraziata che, in tempi di distrazione cronica e rumore generalizzato, dimostra di essere un gioiello preziosissimo.

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venerdì 25 marzo 2011

Lunedì 28.03.11 ore 20

Cinema Fratelli Marx

Corso Belgio, 53 - Torino. Telefono: +39 0118 121 410  mappa» 

Silvio Forever

Un film di Roberto Faenza, Filippo Macelloni. Documentario, durata 85 min. - Italia 2011. - Lucky Red
recensione di Peter Gomez    
Se non lo voti, alla fine ti viene quasi voglia di votarlo. Se lo voti, alla fine ti chiedi perché lo hai fatto. È un film strano Silvio Forever, di Roberto Faenza e Filippo Macelloni, scritto da Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. È una pellicola bellissima quando, per la viva voce del suo unico protagonista - a tratti originale, a tratti doppiata alla perfezione da Neri Marcorè sulla base di dichiarazioni autentiche - ti racconta la parabola del grande venditore. Del “più grande piazzista che ci sia al mondo”, come lo ha definito Indro Montanelli.
Diventa invece un'opera incompiuta quando il film affronta l'altra faccia del magico Silvio. Quella più oscura del grande compratore che, nei fatti, il film affronta solo quando narra il singolare rapporto tra il presidente del Consiglio e le donne. Certo, nella pellicola di Faenza è proprio Berlusconi a rivelare: "Il mio segreto è lo charme. I meccanismi per sedurre una donna o per conquistare il consenso in politica sono gli stessi". Lasciando così pensare, allo spettatore più malizioso, che quello è un paragone ad alto rischio. Visto che nel buio della sala sfilano le immagini di Ruby e le altre, mentre il sonoro ti regala gli audio dei nastri della escort barese Patrizia D'Addario intenta a parlare con lui del “lettone di Putin”.
Ma, decidere di non spiegare che dietro alla conquista della Mondadori ci sono anche le mazzette versate a un giudice, o chiudere il capitolo Cosa Nostra con le immagini del premier che difende Dell'Utri e attacca i magistrati, alla fine significa immortalare un cavaliere dimezzato. Ovvio, Marco Travaglio, davanti a Daniele Luttazzi, sostiene che nei forzieri del giovane Berlusconi entrarono capitali di ignota provenienza. E alla fine risulta più convincente di Silvio che nega e, parlando di sé in prima o terza persona, assicura di avere un'altezza nella media, per poi raccontare di quando da piccolo salvò la sorella, di quando andava a mungere le vacche ottenendo in cambio il burro, o vendeva i compiti in classe ai compagni, versando regolarmente in beneficenza quanto ricevuto.
Ma proprio perché il film, come ripetono gli autori, non vuole essere “un film politico”, avrebbe forse dovuto avere – a tratti – un maggior rigore documentaristico. Berlusconi è un personaggio complesso. Che va narrato in tutte sue sfaccettature. Per questo le piccole omissioni (dove sono i fratelli della Loggia P2? dove sono i finanzieri che andarono a lavorare per lui dopo le verifiche fiscali nelle sue aziende?) rischiano di trasformarlo, semplicemente, in una simpaticissima canaglia.
Le immagini di repertorio, le interviste dimenticate, il filmati recuperati anche su youtube o da emittenti estere, servono insomma per ribadire quello che anche chi gli è amico non nega più: Berlusconi vende sogni. Le voci contrarie, pur presenti nel film, non bastano invece per raccontare la sua capacità di fare acquisti. Anche di persone. Così alla fine Silvio Forever, più che una biografia non autorizzata di un potente uomo politico, diventa l'avvincente ritratto di un paese, l'Italia, che vuole per sempre restare scugnizzo. Un paese furbo, intelligente, spregiudicato. Ma irrimediabilmente piccolo.

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